Ed eccovi le
imperdibili greatest hits non richieste e poco autorevoli di questo blog,
immancabili per iniziare l’anno nuovo con il ritmo giusto in attesa dei primi
album di un 2015 che si prospetta ricco di sorprese. Quest’anno sono riuscito a
parlare solo di 15 album mostrando una capacità di sintesi incredibile per me
come sa bene chi mi conosce. Mi è costato parecchio tagliare certi album e
certi artisti, ma sinceramente è giusto così.. spero di non aver dimenticato
nessuno, cosa che avrò certamente fatto. Prendetene ed ascoltatene tutti. Buon
2015.
GEN. THE ZEN
CIRCUS – “Canzoni contro la natura”
Sarò
breve perché chi ha letto nell’ultimo anno questo blog ne avrà pieni i coglioni
di leggere lodi sul circo Zen. Dirò solo un paio di cose. Non è stato l’album
migliore degli Zen, questo mi sento di dirlo, ma non è questo la cosa
importante. Quello che conta è che ormi loro ci sono sempre, quello che conta è
che ormai sfornano solo materiale di qualità, e forse, dico io, non sono già
arrivati al limite di quello che possono fare, forse stanno cercando ancora un
po’ dove possono arrivare, un po’ come tutti noi che li ascoltiamo, e
quest’anno ho imparato che quando la strada è quella giusta, ciò che sta in
mezzo è quasi più importante di dove si arriva. Concerti spaziali. Viva canzone
della tana per eccellenza, non potevano proprio mancare.
FEB. THE WAR ON
DRUGS – “Lost in dream”
Lost
in dream non è un disco ma, innanzitutto, come si intuisce dal titolo, un
viaggio interiore, un viaggio nel sogno. I TWOD si fanno carico di progettare e
costruire il sogno nel quale perderci durante il suo ascolto, o meglio, forse
non è nemmeno così. Ci forniscono gli strumenti, sta a chi ascolta costruire il
suo sogno plasmandolo in base alla propria anima. Fatto sta che se ascoltato
con gli occhi chiusi, sdraiati, ci si trova istantaneamente in un mondo
parallelo che va infinitamente più piano del nostro, connesso da sensazioni
empiriche che nascono da sole senza una ragione logica. Esattamente come in un
sogno.
E’ stato l’album giusto dove fuggire in quel febbraio
così carico di imprevisti.
MAR. BE
FOREST – “Earthbeat” / GOUTON ROUGE – “Carne” / TWO FINGERZ – “V”
Aprirei
la rubbrica “nessuno se li fila”. A pari merito nomino tre realtà italiane
davvero interessanti, se pur di tre generi molto diversi. Be forest, chiamati a
ripetersi dopo "Cold", a dipingere i consueti spazi aperti, colmi di
sensazioni e colori. Eccezionali ed onirici. I Gouton rouge, travolgenti,
oscuri e viscerali, anche se non molto orecchiabili (la voce forse si sente
troppo poco, anche nei live), otto canzoni che al primo ascolto non vi
piaceranno, ma se vi concederete una seconda e poi una terza occasione vi
trasporteranno senza che abbiate il tempo di allacciarvi le cinture.
Capitolo a parte i Two Fingerz. Album rap dell’anno,
vince ai punti contro Orchidee di Ghemon e Museica di Caparezza, in un anno in
cui, tra gli altri, sono usciti anche i nuovi ,secondo me apprezzabilissimi, lavori
di Ensi e Fedez. Proprio Fedez collabora con i Two Fingerz in un brano
dell’album, a dimostrazione della loro caratura. Loro, che tipicamente
compaiono ad impreziosire gli album del vero genio del rap italiano (Dargen),
compongono un album davvero gradevole ed importante, confermandosi una solida
realtà del genere. Nell’attesa del 2015 in cui potremo ascoltare le nuove
fatiche di Dargen e Marra, godiamoci questo inno alla leggerezza che è “V”.
APR. THE
MENZINGERS – “Rented world”
Già, forse non è che ci stanno proprio in una top12 del 2014, lo
ammetto, ma le mie scelte sono sempre molto opinabili. Dico un pro e un contro.
Il pro è sicuramente il fatto che producono musica adolescenziale allegra e
divertente, e per i nostalgici come me di gruppetti tipo Blink e i primi Green
Day non può non piacere ogni tanto avere a che fare con i Menzingers. E’ il
classico gruppo da party a casa di un amico con tanto di sveglia al mattino
alle 11 sul suo divano senza ricordarti nulla delle 10 ore precedenti. Il
contro è ovviamente che è musica con un’età e diversi limiti, e loro sembra
proprio che più di così non possano fare. Certo, ad aprile mentre li ascoltavo
pensando già all’estate vi avrei detto: “dici poco”.
MAG. LO
STATO SOCIALE – “L’Italia peggiore”
Nativi di Bologna, la prima volta che li ascoltai a dovere fu proprio nella
loro terra, subito dopo il concerto degli Zen. Devi sentirli, mi dissero, e non
riuscirai più a farne a meno. Qualche mese dopo il loro concerto in un alcatraz
pieno di gente. In mezzo mille visualizzazioni su spotify e tonnellate di like
alle loro frasi sparse senza senso sui social network. Perché molte volte la
sensazione che i loro testi siano solo frasi senza senso a condire ritmi
ballabili frutto di un mix tra elettronica e indie la gente ce l’ha. Solo dopo
un’attenta analisi ci si rende conto che in realtà, all’interno dei loro testi,
qualcosa, anche di piuttosto forte c’è. Del resto io penso che per dire una
cosa, al giorno d’oggi, non puoi più dirla, ma devi dire altro, e fare in modo
che si capisca quello che in realtà vuoi dire. E loro questo lo sanno fare,
parlano a slogan, a frasi fatte, giocano con le parole, come fanno alcuni
rapper. Il risultato a mio modesto parere non è affatto male, poi ai posteri
largo a sentenza, nel senso che tra qualche anno vedremo se Lo Stato Sociale
diventerà un gruppo in grado di fare del buon cantautorato di qualità, o se
L’Italia Peggiore e Turisti della democrazia saranno stati soltanto un bel
gioco. Considerato che la musica non è una cosa seria, forse, alla fine, gli
auguro di continuare a giocare.
GIU. LINKIN PARK
– “The hunting party”
Devo
dire la verità, sono di parte. Io i Linkin Park li adoro a prescindere. Non so
spiegare bene il motivo a dire il vero, considerato anche che i miei due loro
album preferiti sono quelli che i veri fan dei LInkin Park detestano, e cioè:
Livin things e Minutes to midnight. Sarà forse perché in concerto sono degli
animali in grado di reggere ore a ritmi altissimi. Sarà perché da anni ormai
tracciano le linee guida del rock più mainstream che ci sia, indicando la rotta
come una cometa, e non è un caso che questo album guardi indietro a Meteora e i
primi Linkin. Sarà anche perché loro, nel bene o nel male, uniscono tutti i
puntini della mia evoluzione musicale, rimanendo come delle pietre in un
torrente su cui saltare tra un nuovo amore musicale e l’altro.
LUG. COLDPLAY – “Ghost stories”
Per
Santiago, sono partito un giorno prima dei miei compagni. Il volo Milano
Maplensa – La coruna sarebbe durato 10 interminabili ore, con un significativo
tempo di scalo a Lisbona. Non avevo bagaglio a mano, imbarcai lo zaino pregando
il cielo che arrivasse fino a destinazione. Poi mi sedetti in aeroporto, a
guardare la gente transitare dalle vacanze alla realtà e viceversa. Ho pensato
di salire su ognuna delle destinazioni che chiamavano ad intervalli regolari
prima del mio volo: Barcellona, Gran Canaria, Bordeaux, Berlino, Copenaghen ecc.
L’aereo da Lisbona a La coruna era poco più che un idrovolante, eravamo in
dieci. La cosa bella era che volava molto basso, tanto che dal finestrino si
vedeva nitidamente la drittissima costa del portogallo mentre correvamo verso
nord. Ad un certo punto il sole tramontò, sull’oceano, illuminando di rosso
l’interno dell’abitacolo. Ghost Stories era la sola cosa che riuscivo ad
ascoltare in quel periodo, e quello fu uno dei primi momenti in cui tornai a
respirare.
AGO. THE GASLIGHT ANTHEM – “Get Hurt”
I
Gaslight anthem cantano un mondo che delle volte mi pare quasi possa esistere
solo nei film o in una campana di vetro, quel poco che riesca a resistere prima
che venga frantumata dalla voce di Brian Fallon, calda e rauca quasi come
quella di un altro cantautore americano del New Jersey a cui si ispirano
“vagamente”. A ricordarmi che i Gaslight Anthem
siano il gruppo migliore in circolazione è stato il loro concerto di
novembre, come prima cosa dicono che non avrebbero fatto “quella stupida cosa
di uscire e poi rientrare, si perde il tempo per suonare un paio di canzoni in
più”. Capaci di dipingere con chitarre basso e batteria un mondo nel quale ho
costantemente vent’anni, fatto di macchine veloci, manoscritti, vinili,
tramonti e ragazze sfrontate essi album dopo album continuano in qualche modo a
raccontare il sogno americano, a modo loro. E anche se l’album non è il loro
capolavoro, continuano a regalarmi pezzi di America con i quali tirare avanti
nell’attesa, un giorno, di sbarcarci per davvero.
SET. CHRISTOPHER OWENS – “A new
testament”
Per
chi conosce i sottovalutatissimi Girls, Christopher Owens, dei quali è il
leader, non è certo un novità, e vederlo tra i primi dieci album dell’anno non
stupisce. E’ un album da domenica sera, da domenica sera di settembre
soprattutto, e non è per me facile spiegarvi cosa intendo. Vi posso solo dire
che come certi cibi vanno mangiati nel posto da dove provengono, A new
testament andrebbe sentito sul lago quando scende la sera a settembre, solo
così riuscirete a rubarne tutto il gusto, come un siero della nostalgia, e
posso scommettere che molti di voi lo troverebbero piacevole, e forse alcuni,
non lo escludo, potrebbero anche innamorarsene.
OTT. CLOUD NOTHINGS – “Here and
nowhere else”
Senza
tanti giri di parole, il miglior album straniero del 2014. La prima cosa che
penso quando ascolto i Cloud Nothings è un esagerato senso di gratitudine che
provo nei loro confronti. Echi del migliore post punk che abbiamo ascoltato
negli ultimi anni, il tutto fuso e rimescolato in un album curatissimo in ogni
particolare. Ideale per i freddi pomeriggi di Milano a sbattersi le palle tra
tavole, modellini consegne e tutto le restanti rotture di coglioni. Ci sono
stati giorni in cui è stato un casino farlo smettere di suonare. Un disco
potente, che arriva direttamente come migliore erede di una stagione gloriosa
della musica, a darmi un po’ di speranza per il fatto che possiamo ancora avere
a 25 anni musica contemporanea come questa e non dover per forza aspettare
qualche vecchio gruppo anni ’90 uscire con un nuovo album pregando il cielo che
non abbia fatto una cazzata. I CN Sono a tanto così dal colpo grosso.
Ascoltatelo quando siete incazzati, e poi dite solo grazie.
NOV. FAST ANIMALS AND SLOW KIDS –
“Alaska”
Senza
tanti giri di parole, il miglior album italiano del 2014. I FAASK sono stati
taglienti come una pugnalata nello stomaco nel servirci la cruda realtà di come
delle volte il nostro animo si annodi su se stesso lasciandoci al gelo,
indifesi. Il mio novembre non è stato freddo come quello in Alaska, ma poco ci
è mancato. Si parla di un luogo, lontano e freddo, non reale ovviamente, che si cerca
disperatamente e costantemente, libero di tutte le scorie che ci portiamo
dietro, un foglio bianco come una distesa di neve dove riscostruire tutto come
vogliamo, guidati solo dall’emozione della scoperta. Perché abbiamo tutte le
nostre Alaska dove andiamo ogni tanto ad urlare finchè non finisce la voce.
Questa è musica che nasce dalla pancia, ed esce fuori sbraitata ed urlata con
tutta la forza di cui si dispone, liberandosi degli stretti schemi di una
routine che talvolta non ci si ricorda quanto sia pesante e dannosa. Questa è
musica vera, ed è musica da fissare con una puntina sulla bacheca di fronte al
letto. Questa è musica che ci ricorderemo per molto tempo.
DIC. NUDE BEACH – “77”
Se il
28 di dicembre ci siamo trovati a pianificare le vacanze di questa estate, mi
piace pensare che parte del merito vada ai Nude Beach e a quest’album che sa di
quattro stracci buttati nel bagagliaio di una macchina precaria e di ragazze
con i piedi fuori dal finestrino mentre guidi con il braccio fuori. Al di là
dei clichè, i Nude Beach non li conoscevo, e sono stati una delle sorprese
migliori di questo strano dicembre. Le vacanze poi le abbiamo messe giu, un po’
abbozzate e buttate lì, così come i propositi per il nuovo anno. E riascoltando
“77” mi viene da pensare che forse conviene quasi congelare questo album fino
all’inizio di agosto, per farlo risuonare direttamente nel lettore cd della
macchina.
Vi terrò aggiornati.
Forse.
Con questo vi do appuntamento al 6 febbraio, con l'ultimo post di questo blog.